Ho scelto la scrivania di mio padre.
Una stanza ricavata da un andito esagerato quanto l’improvvisato mestiere di quel geometra alla fine dei ’60. Una libreria lo ha trafitto nel mezzo e dal lato squartato è nato l’ufficio, sventrato – al lato opposto – dall’ingresso di servizio. Tutto, fuorché un luogo intimo. Una metafora geometricamente definita di quello che avrebbe voluto e non ha avuto, cercando di averlo.
Una scrivania, una lampada come si conviene, un mappamondo (made in England, By appointment toy makers to H.M. the Queen Mother N° 10174), dono dello zio F. in rientro dalla spedizione in Albania.
Storia mai verificata.
È ancora tutto come allora. Gli occhiali dentro l’astuccio. La lente di ingrandimento presa alla bancarella dei polacchi quella sera che aveva sfilato la processione del Corpus Domini. La polvere sui rotoli di carta. Il gilet ancorato alla sedia, ormai privo di odore.
Perfetto per una vigilia, per il resoconto di quello che c’è e quello che manca. Per scavare sull’inquietudine ogni volta che qualcuno lo attraversa strappando intimità all’intimità.
Quando c’era lui era un luogo inviolabile: divieto di transito. Unico accesso consentito: dall’ingresso principale. Ora no, nessuno ha questa premura e a ogni passaggio riduci icona, ingrandisci icona diventano i segni di quest’accettazione.