scrivanie

Ho scelto la scrivania di mio padre.

Una stanza ricavata da un andito esagerato quanto l’improvvisato mestiere di quel geometra alla fine dei ’60. Una libreria lo ha trafitto nel mezzo e dal lato squartato è nato l’ufficio, sventrato – al lato opposto – dall’ingresso di servizio. Tutto, fuorché un luogo intimo. Una metafora geometricamente definita di quello che avrebbe voluto e non ha avuto, cercando di averlo.

Una scrivania, una lampada come si conviene, un mappamondo (made in England, By appointment toy makers to H.M. the Queen Mother  N° 10174), dono dello zio F. in rientro dalla spedizione in Albania.

Storia mai verificata.

È ancora tutto come allora. Gli occhiali dentro l’astuccio. La lente di ingrandimento presa alla bancarella dei polacchi quella sera che aveva sfilato la processione del Corpus Domini. La polvere sui rotoli di carta. Il gilet ancorato alla sedia, ormai privo di odore.

Perfetto per una vigilia, per il resoconto di quello che c’è e quello che manca. Per scavare sull’inquietudine ogni volta che qualcuno lo attraversa strappando intimità all’intimità.

Quando c’era lui era un luogo inviolabile: divieto di transito. Unico accesso consentito: dall’ingresso principale. Ora no, nessuno ha questa premura e a ogni passaggio riduci icona, ingrandisci icona diventano i segni di quest’accettazione.

Quando eravamo piccoli

È strano:

l’infanzia, periodo così breve della vita, torna sempre alla memoria,

come dovesse essere rivissuta,

aggiornata allo stato adulto dei bambini un tempo stati.

Da bambina giocavo spesso a innamorarmi,

giocavo a essere grande,

e coi miei fratelli maschi a salire sugli alberi.

Collezionavo cicatrici, e sparivo per ore senza che mia madre si preoccupasse di questo.

Da bambina facevo il minestrone con i fiori del giardino, e le polpette col fango, e finivo la giornata dentro la vasca a togliere via la polvere del giorno.

Ricordo che pensavo sempre che da grande sarei diventata bella, anzi bellissima, o meglio,

una donna.  E niente più alberi sui cui salire,

sarei diventata femmina, misurata e snella.

E gli alberi li avrei osservati dal basso.

 

Nella danza in levante.

 

Donna,

infinitesima parte della bambina che sono stata.

Del resto, non siamo che porzioni,

pezzi di vita

Forse uno scampolo, un morso, un assaggio.

E il sapore che abbiamo di noi stessi non coincide mai con quello

che lasciamo agli altri.

 

Foglie

 

Dubitano le foglie in autunno,

così belle non possono che giacere,

infuocate

vittime del vento più leggero.

 

E corrono.

Corrono

prima che il tempo stagioni

sulla banchina in cui ferma inverno.

 

Inibiscono la vista, sulla destra, in fondo, nascondendo la coda di un gatto.

E dicono sia arrivato l’autunno quando non c’ero,

dicono che il cielo sia diventato così bello

da sembrare ambra sprofondata in un bicchiere di quarzo rosa.

 

Così hanno sparso petali di zafferano lungo le cunette

delle strade.

L’hanno fatto perché ogni occhio che lì si posi

possa portare cento e altri cento fili di polvere di rosso.

 

Lo hanno fatto prima che alle foglie fosse concesso diventare letame

sprofondando nel più prezioso angolo dell’orto.

Mesi de ladàmini, è il nome che qui indica il tempo d’autunno.

Letame come letizia, con radice etimologica in letus,

che significa portare felicità.

 

Ecco perché le foglie hanno così fretta,

ecco perché scappano via e paiono impazienti figlie

di alberi maturi.

 

Danzano.

In verità, le foglie danzano fino a trovare

l’esatto luogo in cui  poter tornare alla terra.

 

Sia data lode,

dunque,

a ogni loro movimento,

sia data loro

ogni lode,

scrupolose custodi

delle leggi dell’universo.

la neve dell’85

Dicono che arriverà il freddo siberiano, lo dicono che gocce di pioggia rigano la finestra

e pare che l’aria si sia fatta di bruma e d’autunno.

La neve dell’85 io la ricordo ancora

se anche ero piccola e per camminare

lungo il cortile mio padre aveva tracciato il percorso

e dalla tettoia di casa la neve si bloccava sullo scivolo dei ghiaccioli.

E avevo chiesto una carota, per il naso del pupazzo,

e mamma ci aveva fotografati seduti attorno,

in ginocchio, con stivali improvvisati che da noi la neve non si vede mai.

Per questo forse io la ricordo ancora.

filia, -ae

Per quelle cose che toccano i punti cardine,

nei giorni in cui meno te lo aspetti,

e vedendo uno spicchio di mandarino ti ricordi

di chi dice che le tue labbra sono esattamente così:

come uno spicchio di mandarino.

E quella persona non c’è,

non c’è ora per poterla stringere,

per poterle dire che a volte una vita che se ne va senza salutare

fa più male di una che resta a farti del male.

Nell’intreccio delle colpe,

delle parole che non si è fatto in tempo a dire,

i pranzi tenuti in caldo,

le coperte poggiate sul ventre sazio,

il pensiero dell’auto che arriva dentro il cortile,

la notte che staremo insieme,

bambina senza paura.

Per te piango ogni volta che un dolore mi trafigge,

un dolore che non ti riguarda,

un dolore che non hai fatto in tempo a conoscere.

Perché te ne sai andato via prima,

perché io un bambino non potrò mostrartelo mai.

Concerto a quattro mani

Ferma ad aspettare in un parcheggio improvvisato,

quattro frecce che dondolano sul tempo,

la radio incagliata alla solita stazione,

ho capito di non riuscire più a fare una cosa per volta.

Ho capito che leggere si frappone a scrivere,

scrivere ad ascoltare, ascoltare a musicare,

musicare a perdere pensieri.

Infondo è solo un modo più articolato

per raggiungere il punto di fuga.

back

Ho un brutto carattere, per quanto chi mi conosce da vicino sia pronto a sostenere l’esatto contrario. Da reale tenutaria del suddetto parlo a ragion veduta, pertanto ribadisco: ho un brutto carattere. Questo non interferisce affatto con la qualità della mia persona quanto con quella delle mie azioni, che  il più delle volte non sono altro che il frutto acerbo di una profusa indolenza.

profumo di pulito

Mia mamma ricavamava il mio nome sui vestiti e gli asciugamani prima della partenza per la colonia estiva. In genere con cotone di colore rosso, perché si leggesse con più facilità. Io ho un nome lungo però, anzi per dirla tutta ne ho due. Così puntava sulla M. e aggiungeva il resto. Non tutti i bambini in colonia avevano i nomi scritti sulle loro cose. Io sì, persino sulla scatoletta porta sapone, che poi non era quasi mai giusta per il sapone che doveva contenere. E poi ricordo che il bagnoschiuma era di marca felceazzurra, quello con la bottiglia a righe color lillà. Quello per me era il bagnoschiuma della colonia, infatti a casa la mamma usava malizia. Malizia non ho mai più controllato se esiste, felceazzura invece sì, e quando al market  mi è capitato di vederlo ho sempre segretamente aperto il barattolo, così, per ricordarmi della colonia, dei mie denti grandi da bambina.

apes pura mella stipant et liquid nectare cellas implent

I miei nonni sono stati apicoltori, io le arnie colorate me le ricordo ancora, una dietro l’altra nella discesa, erano le casette delle api, rosse, blu e celesti, e alcune erano vecchie e altre nuove.

E mia nonna quando arrivava l’inverno aveva sempre la soluzione per i nostri mal di gola, erano le api a portargliela, e le medicine erano sempre dolci.

Questa foto l’ha scattata mio fratello sul cortile di casa, e io ho pensato che forse c’è ancora speranza, che se le api hanno ancora voglia di volare e di darci il loro miele, forse ancora c’è speranza.